L’INGV ENTRA UFFICIALMENTE NEL PIU’ GRANDE PROGETTO DI PERFORAZIONE DELLA TERRA.

Con un finanziamento di 75.000 USD l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) è entrato ufficialmente nel più grande progetto internazionale di perforazione profonda della Terra: IODP dalle iniziali di Integrated Ocean Drilling Program (partito nel 2003 come erede di precedenti programmi internazionali di ricerca). Questa avventura della geofisica mondiale per carpire i meccanismi profondi di grandi fenomeni come la tettonica delle placche, l'attività sismica e quella vulcanica, sta per essere rilanciata dalla realizzazione della più costosa nave di ricerca mai realizzata al mondo: si chiama Chikyu che vuol dire Terra in giapponese e sta per essere varata dai cantieri del Sol Levante. Ma la storia dell’IODP affonda le sue radici in un progetto che è nato 36 anni fa, nel lontano 1968 con la sigla di DSDP cioè Deep-Sea Drilling Project. A quei tempi era un’ esclusiva statunitense lanciata dalla Scripps Institution of Oceanography e che si basava su una nave per perforazioni passata alla storia, la gloriosa Glomar Challenger. Grazie a quelle prime esplorazioni gli scienziati hanno potuto raccogliere le prove della nascente teoria della tettonica a placche e scoprire l'espansione dei fondi oceanici lungo le catene dorsali profonde. Negli anni successivi DSDP si è trasformato nell’ODP (Ocean Drilling Program). Il successo delle campagne di ricerca ha portato all'aggregazione di altre realtà internazionali, fino all'attuale IODP che è sostenuto, oltre che dagli Stati Uniti anche dai giapponesi e dagli europei. Il consorzio europeo, ECORD (European Consortium for Ocean Research Drilling) partecipa per poco più di 1/4 alle ricerche con un prevalente impegno di Francia, Germania e Regno Unito. Tutti gli altri partecipanti europei, fra cui l'Italia, contribuiscono ad ECORD con quote abbastanza piccole tra il 2 e 3%. L'Italia in particolare ha messo in campo oltre agli esperti dell' Ingv anche quelli del Cnr, Ogs e Conisma, il consorzio universitario delle scienze del mare. La mappa delle perforazioni finora effettuate nell'ambito di questo quarantennale studio della crosta terrestre profonda è costellata di quasi 2000 perforazioni concentrate soprattutto nelle aree di subduzione, laddove le placche terrestri si immergono una sotto l'altra provocando terremoti e formazione di nuovi complessi vulcanici. Le profondità raggiunte superano i 6000 metri e, non appena la nuova nave giapponese Chikju sarà operativa, tra il 2006 e 2007, si pensa di potere raggiungere i 7000 metri cioè il record di profondità finora ottenuto attraverso trivellazioni su fondali oceanici. A regime si conta di raggiungere i 12000 metri (complessivamente tra spessore dell’acqua e vera e propria perforazione, analogamente a quanto succede per le perforazione in terra ferma. Per confronto le perforazioni effettuate sui continenti sono arrivate a circa 12000 m. Mentre la nave giapponese sta per essere completata, anche gli americani sono intenzionati a rinnovare la loro nave Joides Resolution potenziandola e modernizzandola per adeguarla alle nuove esigenze scientifiche. “L'Europa non ha per ora navi per perforazioni così complesse, ma contribuisce con delle imbarcazioni leggere, chiamate piattaforme alternative che operano in acque poco profonde. Grazie ad esse sono state condotte delle campagne di perforazione in Artide a cui ha partecipato un ricercatore italiano” dice il Dottor Antonio Meloni dell’Ingv. Questo tipo di ricerche oltre a fornire preziose indicazioni per l'avanzamento della geofisica, sta dando risultati importanti nei settori del cambiamento climatico e delle scienze della vita.

Per maggiori informazioni contattare:
Dott. Antonio Meloni Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 06.51860317
Dott. Paolo Favali Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 06. 51860428



Sonia Topazio
Capo Ufficio Stampa
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C.S. del 9 giugno 2005


RICOSTRUITE LE DIREZIONI DELLE COLATE CHE INVESTIRONO POMPEI ANTICA

Nel 79 dopo Cristo, quando il Vesuvio si risvegliò improvvisamente dopo un prolungato silenzio nel corso del quale si era ricoperto di vegetazione fino alla cima, tanto che la gente aveva perso la memoria della sua pericolosità come vulcano, l’eruzione si manifestò attraverso alcune modalità distinte.
Quella più spettacolare fu un’ esplosione che scaraventò brandelli di magma e gas fino a trenta km d’altezza, formando quello che Plinio il Giovane definì un pino marittimo.
Ma dal vulcano uscirono anche miscele di gas e particelle che non avevano la forza di spingersi in alto, e che si riversarono lungo i pendii del monte, come nubi infuocate, riversandosi su Pompei ed Ercolano e “inondando” strade e case.
La dinamica di questi “flussi piroclastici”, come vengono definiti dagli specialisti, è stata ora analizzata con grande dettaglio grazie a una ricerca sviluppata in collaborazione dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. Il lavoro è stato pubblicato su Geology, la prestigiosa rivista internazionale edita da Geological Society of America (June 2005, n.6), a firma dei dottori Lucia Gurioli, Maria Teresa Pareschi, Elena Zanella, Roberto Lanza, Enrico Deluca e Marina Bisson.
“Attraverso misure di magnetismo delle rocce sui depositi messi in posto da questi flussi piroclastici, abbiamo ricostruito le direzioni e le temperature dei flussi stessi che investirono Pompei antica. Ci siamo resi conto che queste correnti piroclastiche, molto diluite e turbolente - spiega la dottoressa Maria Teresa Pareschi dell’INGV – erano in grado di seguire il reticolato delle vie della città, anche quelle perpendicolari alla direzione del flusso principale, e scavalcare come una cascata muri e sbarramenti. Tuttavia, pure in questo panorama di devastazione, si crearono delle zone relativamente più protette, per esempio cavità, spazi a ridosso di muri, che furono esposte a temperature più basse”.
Il lavoro dei ricercatori assume, dunque, un valore che va al di là della puntuale ricostruzione di quanto accadde, poiché permette di identificare in un contesto urbano quali siano le zone più esposte per queste fenomenologie e di dettare regole comportamentali in caso di eruzione anche se, sottolinea la dottoressa Pareschi, “l’evacuazione preventiva rimane la norma fondamentale da rispettare “.
Anche Nature ha voluto segnalare l’importanza della ricerca del gruppo di geofisici e geologi italiani attraverso un commento firmato da Philip Ball e uscito sul numero del 6 giugno 2005.

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Dottoressa Maria Teresa Pareschi tel: 050.8311946 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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C.S. del 14 giugno 2005


MESSAGGINI DELL'INFERNO

Gli apparati vulcanici, sia quelli attivi, sia quelli quiescenti ormai da migliaia di anni, possono veicolare una specie di “messaggini” sotto forma di aggregati di cristalli mescolati ai magmi. Analizzando queste particolari inclusioni cristalline, gli studiosi di vulcanologia tentano di ricostruire la storia evolutiva di un vulcano, capire su quale basamento si è formato e quali sono le rocce attraversate dai magmi durante la loro risalita.
E’ quanto ha fatto un vulcanologo, il dottor Massimo Pompilio del Centro per la modellistica fisica e pericolosità dei processi vulcanici dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) a Pisa, in collaborazione con i dottori M. Alletti e S. Rotolo dell’Università di Palermo.
“Lo studio di diversi campioni di lava di tipo hawaitico raccolti nell’isola di Ustica, nella contrada Spalmatore, ci ha portati ad identificare una quarantina di aggregati di cristalli delle dimensioni di alcuni centimetri che costituiscono frammenti di rocce attraversate dal magma durante circa i 25 km di percorso a partire dalle sorgenti profonde fino alla superficie”, spiega il dottor Pompilio.
L’Isola di Ustica è un vulcano non più attivo da oltre 100.000 anni. Secondo i vulcanologi si è formata poco meno di un milione di anni fa sui fondali del basso Tirreno, in seguito all’apertura di una grande frattura orientata da nord-est a sud-ovest dalla quale, a poco a poco, è risalito un magma simile per composizione a quello dell’Etna.
E’ davvero straordinario come oggi , centinaia di migliaia di anni dopo i processi eruttivi che hanno edificato l’Isola, ci sia la possibilità di ricostruire quali fossero le condizioni chimiche e fisiche nel sistema di alimentazione magmatico e la natura delle formazioni attraversate dai magmi.
“Abbiamo potuto verificare che alcuni di questi aggregati di cristalli rappresentano frammenti di crosta terrestre che si trovano sotto l’apparato vulcanico di Ustica, molto vicino al confine Moho, cioè allo stato di transizione tra il mantello e la crosta stessa. Malgrado questi frammenti di roccia fossero immerse in magmi a temperature di oltre 1000 gradi, essi non si sono fusi e hanno mantenuto integra la loro struttura, viaggiando a velocità medie di qualche metro al minuto. Per coprire i circa 25 km di condotti a partire dal basamento hanno impiegato, quindi, solo alcuni giorni prima di uscire fuori dalle bocche dell’antico vulcano usticese”.
Gli studi sulle inclusioni cristalline dei magmi, applicati anche in altri apparati vulcanici molto importanti come l’Etna, contribuiranno a scrivere una storia più particolareggiata di queste grandi finestre aperte sull’interno della Terra. Intanto la ricerca di Pompilio e collaboratori sarà pubblicata nei prossimi numeri della rivista internazionale ‘Lithos’.

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C.S. del 21 giugno 2005


L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia al primo posto al mondo per lo studio dei vulcani

Nel primo semestre 2005 l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) ottiene il primo posto nelle pubblicazioni scientifiche fra le istituzioni di tutto il mondo che si occupano di vulcanologia e quarto tra quelle che si occupano di sismologia.
La graduatoria è stata ottenuta analizzando la base dei dati dell’Institute for Scientific Information (ISI – Thompson corporation, USA), che indicizza le maggiori riviste scientifiche a livello mondiale.
“ Questo importante risultato -dice Enzo Boschi, presidente dell’INGV- è frutto dell’impegno dei ricercatori INGV che in questi ultimi anni è stato fortemente stimolato dalla nuova impostazione che il Ministro Moratti ha dato alla ricerca italiana con il conseguente grande incoraggiamento a discipline a forte impatto sociale.
L’Ente ha avuto negli ultimi anni una crescita molto forte. L’Italia è storicamente studiata da tutto il mondo, del resto nel nostro Paese si verifica in media un evento sismico abbastanza forte (magnitudo superiore a cinque) almeno ogni due anni”.

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C.S. del 14 luglio 2005


COME DETERMINARE LA MAGNITUDO DI UN TERREMOTO IN BREVE TEMPO

La tempestività nella determinazione della magnitudo di un forte terremoto è essenziale per poter valutare il rischio di un maremoto eventualmente associato all’evento e per riuscire a lanciare in tempo utile l’allarme alle popolazioni.
Ora, grazie a un nuovo metodo di analisi delle onde sismiche sviluppato dal sismologo Dr. Anthony Lomax (Anthony Lomax Scientific Software, Mouans-Sartoux, France) in collaborazione con il Dottor Alberto Michelini, esperto in sismologia all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e pubblicato sulla rivista internazionale di geofisica EOS, è possibile ottenere una stima della magnitudo entro circa un quarto d’ora dall’evento, piuttosto che dopo qualche ora, come finora avveniva.
“L’esigenza di una valutazione più tempestiva della magnitudo di un forte terremoto è emersa dopo la catastrofe di Sumatra del 26 dicembre 2004 e del maremoto associato, che ha investito le zone costiere dell’Oceano Indiano dopo circa tre ore dalla scossa principale”, spiega Michelini.
Dopo quanto tempo è stato stabilito che quel sisma aveva raggiunto la magnitudo nove della scala Richter, classificandosi come uno dei più violenti della storia recente?
Dopo diverse ore, all’inizio era stato stimato in magnitudo di poco superiore a otto e solo la mattina (per noi in Europa) è stato calcolata la sua effettiva grandezza. Anche nel caso del terremoto del 28 marzo 2005 di magnitudo 8.7 localizzato sempre nella stessa zona, i tempi per la determinazione della magnitudo sono stati di diverse ore.
Dunque il vostro metodo analitico può sensibilmente ridurre questo tempo di valutazione: ci spiega semplicemente su che cosa si basa?
Si possono ridurre i tempi a meno di mezz’ora. Il metodo si basa sull’analisi delle onde P radiate dalla sorgente sismica. La sorgente sismica per un terremoto come quello di Sumatra è una faglia lunga più di 1000 km e si può immaginare il terremoto come composto da tante sorgenti sismiche più piccole una attigua all’altra, fino a comporre una zona di rottura complessiva appunto più di 1000 km. Queste onde P emanate da ogni sorgente più piccola, sono facilmente individuabili su un sismogramma operando dei filtraggi. Ne consegue che dalla durata di queste onde sui sismogrammi registrati è possibile, in prima approssimazione, determinare l’estensione della sorgente sismica da dove vengono generate.
Una volta noti, pochi minuti dopo il sisma, epicentro, ipocentro e magnitudo, come si fa a stabilire se il fenomeno è tsunami – genico o no?
La sismologia può stabilire quanto grande è il terremoto e fornire elementi per valutare se il terremoto può aver generato uno tsunami o meno. Tuttavia, la sismologia non permette di stabilire con certezza se lo tsunami è stato effettivamente generato.
Naturalmente tutti questi sforzi hanno senso se poi il sistema di allarme costiero funziona.
A che punto siamo, sotto questo profilo, sia nell’Oceano Indiano, sia nel nostro Mediterraneo ?
Non solo l’allarme costiero, ma anche le boe mareografiche poste in alto mare.
Per quanto riguarda l’oceano Indiano, i tedeschi stanno predisponendo un progetto per l’allerta dagli tsunami che è appena iniziato. Mentre per il Mediterraneo sono al vaglio diversi progetti di monitoraggio e si saprà a breve se verranno finanziati.

Per maggiori informazioni:
Alberto Michelini
Dirigente di ricerca Ingv
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Sonia Topazio
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C.S. del 25 luglio 2005


UNA NUOVA STAZIONE SISMICA DELLA RETE MEDNET

La rete MedNet dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con il Servizio Sismico Serbo, alla fine di luglio u.s. ha installato una nuova stazione sismica a larga banda in Serbia all’interno dell’Osservatorio di Divcibare, circa 100 km sud-ovest di Belgrado, ed a pochi kilometri da Mionica, epicentro dell’ultimo terremoto distruttivo (M=5.7) avvenuto in Serbia nel 1998.
La stazione, equipaggiata con una terna di sensori Streickeisen STS-1 ed un digitalizzatore Quanterra Q380, servirà al monitoraggio sismico dell’area balcanica e contribuirà al monitoraggio sismico della regione italiana.
La collaborazione con l’Istituto di Geofisica dell’Accademia delle Scienze Slovacca, che ha curato il sistema di trasmissione dati, permette di riceverli in tempo-reale sia a Roma che a Belgrado e di integrarli con le reti sismiche di entrambi i paesi.
Come per tutti i dati prodotti dalle stazioni della rete Mednet, anche quelli della stazione di Divcibare (station code DIVS) vengono ridistribuiti in tempo reale ad IRIS ed ORFEUS, i due consorzi (statunitense ed europeo rispettivamente) che si occupano della archiviazione e ridistribuzione dei dati sismici su scala mondiale.
Il sensore VBB, e la particolare scelta del sito in cui è stato installato che ne fanno una delle stazioni col più basso livello di rumore dell’intera rete MedNet, rende questa stazione parte della rete mondiale di stazioni normalmente utilizzate per lo studio dei fenomeni globali dell’interno della terra.
La rete MedNet ad agosto 2005. In verde le stazioni attive, in rosso quelle I attesa di ripristino. Oltre a queste, presso il Centro Dati MedNet vengono acquisiti e analizzati i dati di altre stazioni dell’area euro-mediterranea apparteneneti ad altre reti.

Ufficio Stampa INGV
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C.S. del 8 agosto 2005


GOLE LARGHE

Attraverso lo studio di un sistema di faglie chiamato Gole Larghe si scopre la dinamica della rottura di una faglia durante un terremoto.

E' ormai patrimonio di conoscenza comune che i terremoti, da quelli più inoffensivi ai più temibili, siano provocati dal movimento improvviso di faglie: vere e proprie fratture della crosta terrestre che possono essere superficiali o profonde svariati chilometri. In queste zone di debolezza, le tensioni si accumulano e poi, improvvisamente si scaricano, facendo muovere i due lembi della faglia e generando onde che si propagano nel terreno in maniera analoga a quelle generate da un sasso che cade in una pozza di acqua stagnante.
Ma, volendo scendere nei dettagli, qual è la dinamica della rottura di una faglia durante un terremoto?
A questa domanda risponde uno studio pubblicato sull'ultimo numero della prestigiosa rivista 'Nature' (18 agosto 2005) da un gruppo di ricercatori formato da Stefan Nielsen, Giulio Di Toro e Giorgio Pennacchioni, il primo sismologo dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e gli altri due del Dipartimento di Geologia, Paleontologia e Geofisica dell'Università di Padova.
Uno studio che si può definire di paleo-sismologia in quanto ricostruisce le vicende di un sistema di faglie chiamato 'Gole Larghe', lungo una ventina di km, che si trova a Nord dell'Adamello, nelle Alpi Orientali, e che si è attivato circa 30 milioni di anni fa. Chiediamo al dottor Nielsen:
Che cosa ci ha insegnato lo studio di questa antica faglia ?
-Prima di tutto è un ottima verifica naturale della teoria del “frictional melt”, ovvero che durante un terremoto il forte attrito sulla faglia può generare un surriscaldamento veloce e quindi fusione della roccia. Sulla faglia delle Gole Larghe, ci sono abbondanti tracce di roccia fusa, rapidamente solidificata nei minuti successivi al terremoto formando una specie di vetro poco cristallizzato, che è rimasto intatto a testimoniare degli antichi terremoti avvenuti. Questo certamente non accade in tutti i terremoti, ma quando c’è traccia di fuso si ha certezza che la faglia sia stata sismicamente attiva. Osservando poi la rete di fratture, si vede che dalla faglia principale dirama un gran numero di fratture secondarie. Queste si sono formate durante i pochi secondi di attività della sorgente sismica, quindi sono tracce dello stato di tensioni nella roccia proprio durante il terremoto. Grazie a dei modelli numerici, che consentono di simulare la propagazione della frattura con il computer, abbiamo scoperto che le fratture secondarie non sono orientate in direzioni casuali, ma la loro giacitura asimmetrica, e le loro direzioni indicano che la frattura si propagava verso Est, e che la velocità di propagazione era leggermente inferiore a quella delle onde di taglio (onde S, circa 3000 metri al secondo). Questa faglia è antica, ma è una miniera di informazioni sui pochi secondi di frattura che sono stati “fotografati” dalle rocce e che si possono ricostruire a distanza di milioni di anni. Ora stiamo lavorando per ricavare altre informazioni, per esempio sul livello di attrito della faglia. Siccome è un tipo di osservazione molto diversa da quelle abitualmente usate in Sismologia, procura delle informazioni complementari.
La faglia è direttamente accessibile ?
-Si, è un caso eccezionale, perché è risalita in superficie una porzione di faglia che si trovava in origine a una decina di chilometri di profondità. Di solito sono accessibili soprattutto le porzioni più superficiali delle faglie sismiche, o addirittura sono completamente sepolte e vengono studiate “a distanza” o tramite costose operazioni di perforazione. Qui invece possiamo toccare con mano quello che fu il cuore di una faglia sismica, e seguire il percorso delle fratture per decine di metri. La faglia è stata risollevata dai movimenti tettonici, in parte responsabili della formazione delle Alpi. Poi il ghiacciaio dell’Adamello ha scavato e levigato per secoli la roccia. Infine, con il riscaldamento dell’atmosfera di questi ultimi decenni, il ghiacciaio si è ritirato parecchio ed ha esposto alla luce le tracce di faglia. Bisogna però prepararsi a una seria scarpinata in alta montagna per raggiungerla!
Con quali metodi ne avete ricostruito la morfologia?
-La superficie di roccia visibile è come una sezione attraverso la faglia stessa; una delle prime cose da fare è fotografare e ridisegnare le strutture, aiutandosi di “telai” che sono come delle cornici che servono da punti di riferimento. Adesso esistono metodi più sofisticati, come il laser scan 3D, un apparecchio che crea una immagine fotografica in 3 dimensioni scandagliando la superficie con un raggio laser, e che abbiamo previsto di usare prossimamente sulla faglia delle Gole Larghe.
La faglia in esame potrebbe riattivarsi?
-Questo è escluso, per fortuna (o purtroppo penseranno i ricercatori). Infatti la faglia non si trova più nel contesto di deformazione e di sforzi che vigevano durante la sua formazione e la sua attività. Naturalmente la zona Alpina, in particolare quella orientale (e.g. Friuli), è ancora interessate da terremoti, però questi avvengono oggigiorno su altri sistemi di faglie.
Per maggiori informazioni
Stefan Nielsen
081.2420319
348.4955861


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C.S. del 26 agosto 2005


PROGETTO DIAS: UN SERVER DIGITALE EUROPEO PER L’ALTA ATMOSFERA

La più approfondita conoscenza dello stato della ionosfera va a vantaggio di tutte le moderne tecnologie di telecomunicazione e di navigazione spaziale che dipendono strettamente dallo stato fisico di questa parte dell’altra atmosfera.
La ionosfera, regione dell’alta atmosfera al di sopra dei 60 km di quota utilizzata per le comunicazioni e la navigazione satellitare e terrestre, potrà essere ulteriormente osservata e sorvegliata grazie ad un nuovo progetto europeo a cui partecipa anche l’Italia.
Il “DIAS” (European DIgital upper Atmosphere Server) è stato varato nel 2004 nell’ambito eContent della comunità europea. Il progetto, di durata biennale, ha l’obiettivo di creare un server per la raccolta dei dati digitali europei dell’alta atmosfera. Il suo sviluppo si basa sulle banche di dati storici esistenti e sulle informazioni in tempo reale fornite da diverse stazioni ionosferiche digitali attualmente in funzione in Europa e appartenenti a istituti governativi.
L’Italia è rappresentata tramite l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) che contribuisce al progetto con la consulenza tecnico-scientifica del personale della sezione di Geomagnetismo e Aeronomia, diretto da Bruno Zolesi e con i dati della stazione ionosferica di Roma. Quest’ultima, fondata da Guglielmo Marconi, vanta una lunga serie storica di dati che la colloca fra i più antichi osservatori ionosferici d’Europa.
La realizzazione del DIAS permetterà di migliorare l’accesso alle informazioni digitali sullo stato dell’alta atmosfera della regione europea anche attraverso lo sviluppo di prodotti a valore aggiunto e servizi utili per un ampio numero di utenti interessati alle comunicazioni in HF e ai sistemi di navigazione. Tali servizi sono di particolare utilità nel caso di tempeste magnetiche o altri disturbi di origine solare che, causando perturbazioni nella ionosfera, possono rendere scarsamente affidabili dispositivi quali, ad esempio, radio HF o ricevitori GPS.
Attualmente non esiste una coordinazione a livello europeo delle attività di monitoraggio e di raccolta di dati ionosferici atta a produrre servizi all’utente. Per questo motivo il DIAS si propone di creare un server in grado di dare informazioni in tempo reale sullo stato dell’alta atmosfera sopra l’Europa, anche attraverso degli avvisi forniti all’utente mediante sms, internet, palmare, ecc.. In questo modo la comunità ionosferica europea potrà contribuire alla realizzazione di una meteorologia spaziale sul nostro continente.
Il prototipo di questo servizio, ispirato a quello già operativo negli Stati Uniti e in Australia, è attualmente consultabile on line, visitando il sito web del DIAS: www.iono.noa.gr/dias/.
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C.S. del 8 settembre 2005


L’Istituto Nazionale di Geofisica Vulcanologia (Ingv) comunica che un intenso brillamento solare del 9 settembre ’05 ha innescato una tempesta magnetica.

Il fenomeno è associato a una grande “macchia solare”, un vortice elettromagnetico che è emerso sul bordo del Sole il 7 settembre scorso e che persisterà per circa una decina di giorni. Il vortice espelle gas e particelle con un’elevata energia. Le particelle solari, costituite soprattutto da protoni e elettroni, viaggiano nello spazio e investono il campo magnetico terrestre, interessando l’alta atmosfera. L’impatto silente con l’atmosfera provoca una serie di fenomeni che possono interferire negativamente con i voli spaziali e le telecomunicazioni.
In relazione a questi fenomeni il dott. Antonio Meloni, dirigente di ricerca della sezione Geomagnetismo aeronomia e geofisica ambientale dell’Ingv precisa che mentre la perturbazione del 7 settembre scorso non ha avuto rilevanti effetti a Terra, né sul campo magnetico, né sulla ionosfera, al contrario un successivo brillamento del 9 settembre avvenuto alle ore 09.45 ha prodotto una perturbazione detta Solar Flare Effect (SFE), cioè effetto del brillamento solare. Il brillamento a distanza di circa 40 ore dalla sua emissione ha generando tutta una serie di fenomeni che hanno influenzato alcuni strati della ionosfera (strato D e strato E che si trovano tra 70 e 100 km, e lo strato F tra 200 e 400 km di quota). La perturbazione iniziata alle ore 01.10 dell’11 settembre è caratterizzata da un intenso impulso iniziale. Nello stesso momento è iniziata anche una tempesta ionosferica caratterizzata da una forte diminuzione della densità elettronica ed un innalzamento dello strato ionosferico che ha alterato le ordinarie caratteristiche della ionosfera, riducendo il suo potere di riflessione delle onde radio che viene sfruttato da alcuni tipi di telecomunicazioni terrestri.
In particolare la tempesta ionosferica ha determinato un assorbimento delle onde radio corte ed è durata sino alle 19.45 circa.
Per maggiori info: Antonio Meloni 06.51860317 335-7725458 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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C.S. del 13 settembre 2005